Era uno di quei pomeriggi di luglio che sanno di stanchezza, con la luce che si schiaccia bassa sulle strade bianche e il caldo che fa diventare tutto un po’ ovattato. Avevo un appuntamento in un paese vicino, ma ho deciso di fare una deviazione. Di quelle scelte che fai di pancia, senza pensarci, quando qualcosa dentro di te ti chiama da un’altra parte.
Ho preso una contrada tra le campagne, un posto che da bambina conoscevo a memoria. Ma la memoria, si sa, è infedele. La strada mi è sembrata lunghissima, straniera. I muri, le vie, i bivi, tutto mi sembrava serrato, eccessivamente nuovo, troppo distante da quello che ricordavo. Dei Novanta non restava più nemmeno la polvere.
Alla fine della via, dove il mondo sembra chiudersi in se stesso, c’era un piccolo casale. Un ovile, o forse no. Non l’ho mai saputo davvero. So solo che è sempre stato vecchio. Quando ero bambina, era già antico e già abbandonato. Le porte di legno si appoggiavano appena al loro destino, chiuse da una catena arrugginita che sembrava più un gesto simbolico che una vera protezione. Neanche le volpi si sarebbero sentite ostacolate.
Eppure, quella catena diceva: qui non puoi entrare. Era il confine sacro di un piccolo mondo che, oltre il legno, si apriva come una capsula del tempo. Dentro c’erano attrezzi da lavoro, mucchi di paglia, giornali così vecchi che sembravano raccontare un altro secolo. Il pavimento non era pavimento, ma terra vissuta, con ciuffi di fieno, un rastrello dimenticato e in un angolo il mangime per i pesci. Sì, perché fuori, nella pilozza, c’erano dei pesci enormi. Talmente grandi che le mie mani di bambina non riuscivano a contenerli nella memoria. Li nutrivo come se stessi facendo una magia e il mangime che fioccava nell’acqua mi sembrava neve in un Natale incantato.
C’era anche un vigneto, sempre coperto da teloni, dove provavo a infilarmi tra i filari. Ma le api, gli insetti, i ronzii sapienti mi respingevano. Allora cambiavo rotta, andavo nella campagna, dove lo zio Antonio mi mandava alla ricerca del papavero blu. Diceva proprio così, “blu”. Io ci credevo. Ammazzavo ogni papavero, con una cura infantile e crudele, per cercare quei petali impossibili. Non li ho mai trovati, ma ancora oggi, ancora adesso, penso che forse da qualche parte quel fiore possa esistere davvero e che magari un giorno, anche per caso, lo troverò.
Ecco perché l’altro giorno sono tornata lì. Per vedere se il sole tramontava ancora con lo stesso effetto, per cercare quella parte di me che avevo lasciato tra quelle zolle. I muri erano più vecchi, ma anche più lontani. C’era una distanza fisica che non potevo colmare e forse è così che funziona il tempo: non ti vieta il ritorno, ma te lo fa vedere da fuori, come un film muto proiettato nel cortile della tua nostalgia.
È durato un attimo; e va bene così.
Appunti sparsi caduti nella borsa e ricopiati con cura e discrezione
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In questa newsletter ci sono 803 parole; tempo di lettura 4 minuti. A domenica 20 luglio. Come promesso, abbiamo recuperato i minuti.
Grazie per aver dedicato del tempo a questa lettura; se ti piace DISAPPUNTI, consigliala.
Riflessione conclusiva. Vale di più una pace indifferente o un cuore inquieto che non smette mai di cercare?